E però, allora. Allora non è solo l’Italia del berlusconismo. Non è solo il Cavaliere che ha corrotto le anime, narcotizzando e rimbambendo un intero Paese tra telepromozioni e grandifratelli. Cioè, negli Stati Uniti adesso c’è Sant’Obama, speranza sia pur in parte delusa dell’agognato rinascimento mondiale. E prima di Bush c’era Clinton, un altro che Veltroni e compagnia ci han fatto una capa tanta.
E dunque è proprio vero, al netto delle analisi di Repubblica e affini e del «gli italiani ormai si sono rincoglioniti» - ritornello, questo, che però suona tanto come una scusa per nascondere l’incapacità del nostrano schieramento progressista di opporsi al populismo insopportabile elaborando una proposta credibile. E’ vero invece che Berlusconi non è tanto la causa, ma il prodotto di ciò che siamo diventati – plurale generico, di fronte al quale tutti in coro subito ripetono che «io no, io sono diverso». E comunque non è che sia una scoperta, ma nemmeno un discorso così inutile. Nel senso che è meglio ricordarsela, questa cosa, giusto per aver presente qual è la realtà – il Paese reale, no? – e come eventualmente agire, possibilmente senza spocchia, per cambiare le cose. Discutere. Convincere. Fare politica, insomma.
Perché negarlo è come fermare il vento con le mani. E in questo senso è certo paragone azzardato, ma ricorda l’atteggiamento della Lega di fronte al fenomeno dell’immigrazione, che si guarda i piedi per evitare di prendere atto di una realtà più generale. Cioè, son millenni che le popolazioni si spostano nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita – in seguito a carestie o guerre o quant’altro – e questi vogliono fermare i flussi con le espulsioni e gli accordi e i reati di immigrazione clandestina e le magliette di Calderoli.
Ma vaccaghér.
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