mercoledì 27 aprile 2011

La rivolta dei barboni

La rivolta dei barboni, così se ne parlava a Bologna nei primi giorni d’aprile. Possibile? No, rivolta suona magari esagerato, però insomma si sono arrabbiati. Quelli che vivono per strada, i senza-fissa-dimora. Saranno stati un centinaio. Han preso coperte, sacchetti, cartoni. Sono andati davanti al Comune, con il supporto della storica associazione Piazza Grande. Si sono accampati lì per protestare – sì, per protestare, e perché, i barboni non possono protestare? Gli hanno chiuso il dormitorio, quello ch’era stato aperto per “l’emergenza freddo”, che così almeno nel gelo invernale non ne moriva uno alla settimana e non sporcava l’immagine della città equa e solidale. E  però poi basta, finito, andate per strada - andate a lavorare, barboni - tanto ormai è arrivato il caldo. E allora sciò, sloggiare. E loro si sono accampati là, davanti al Palazzo, quattro giorni e quattro notti, «tanto che cosa vuoi che cambi, per noi? Ci siamo abituati. E poi perché chiudere i dormitori? E’ una crudeltà inutile».

Una crudeltà.

Tanto che alla fine in Comune han deciso di lasciarlo aperto fino a giugno, quel dormitorio  – cioè, l’ha deciso il commissario straordinario, perché Bologna è commissariata fin dopo le imminenti elezioni. Dunque fino a giugno la situazione è tamponata, così almeno non ci sono polemiche sotto elezioni, che non sta bene. Da fine giugno in poi si vedrà, ci sono rassicurazioni di massima ma in sostanza ancora non si sa se ci saranno letti a sufficienza per i senza-casa. Non si sa dove potrà andare a dormire, quel centinaio di persone. Il problema è che i centri di questo genere sono sempre una scocciatura da gestire, «ci vorrebbero condizioni di sicurezza difficili da garantire», così dicono. Per tenere a bada i barboni. 

Loro sì che son pericolosi.
I barboni, intendo.

E però a Firenze c’è chi s’è spaventato davvero. Comprensibilmente, accidenti. Nel senso: uno, un clochard – per dirla alla francese –, e insomma un barbone sulla quarantina, lui che s’aggira giorno e notte per il centro insieme con altri due disperati, ecco, stavolta è entrato nella basilica di Santo Spirito e ci ha gettato un petardo che ha fatto un gran botto. Aveva bevuto come al solito, forse non si rendeva conto, certo è che ha fatto quest’idiozia. E tutta la gente in Chiesa ha fatto un salto così. E s’è arrabbiata, com’è ovvio, tanto che hanno preso il barbone e ancora un po’  e gli facevano fare una brutta fine.
Poi l’hanno mollato, le guardie l’hanno preso e portato via e poi denunciato.
Adesso sarà tornato su un’altra panchina.
A fare il barbone.
E proprio sotto l’articolone uscito sul giornale cittadino, sezione primo piano Firenze, ecco il riquadro con questo titolo, «intanto è partito il restyling».

Il restyling.
E dove c’è il restyling non ci sono barboni, altrimenti che restyling è?

E una volta ne avevo conosciuto uno, se ne stava sempre in giro e poi sul finire del pomeriggio lo vedevi arrivare ai giardini di Sant’Eustorgio, qui a Milano. Non ne sapevo il nome, lo chiamavo Aldo, così, tanto per dirne uno, e lui mai m’aveva corretto. E mi guardava e aspettava la moneta e poi mi sorrideva e mi diceva «state attenti! state attenti!». E sempre sghignazzando ripeteva che «noi siamo i padroni degli angoli, conosciamo i tombini, chiaccheriamo coi topi», e poi concludeva che «la città è nostra, noi siamo la città», e poi se ne andava. I barboni che fanno la rivolta? Ma figurati, loro hanno già troppo da fare, ognuno coi suoi démoni da tenere a bada - e quelli, i démoni, mica scherzano. «Però non ci dovete trattare come bestie – così mi diceva Aldo -. No. E poi state attenti». Ancora? «Sì, perché siamo sempre di più». E mi spiegava che «io ne vedo di nuovi ogni giorno, e però a questi gli devi spiegare che non è che possono arrivare belli belli e prendersi il posto che più gli aggrada, eccheccazzo. Ci sono delle regole, ci sono. Vai a cercarti il tuo angolo e buona fortuna fratello, speriamo di rivederci, altrimenti riposa in pace».

Il fatto è che tutti pensano sia facile, fare il barbone. Aldo una sera me l’ha spiegato, me lo ricordo come fosse oggi, «credono che non abbiam voglia di far niente. Ma guarda che non è mica così semplice. E’ che non ce la facciamo, non ce la facciamo a starci dentro. E adesso io non sono mica più un ragazzino. Giro per la città, bevo quel che trovo, mi siedo dove capita e dormo dove capita e poi mi sveglio dove capita e ricomincio, se c’è qualcuno con cui parlare va bene altrimenti parlo da solo che va bene lo stesso. Sopravvivo, che cosa devo fare? Sopravvivo». E poi sembrava si fosse messo a piangere, ma s’era coperto il viso e ne era riemerso con la sua solita risata.

«E non m’interessa di vestirmi, di farmi la barba, di lavarmi i capelli. Mi frega solo che qualcuno mi allunghi qualche spicciolo, devo fare la giornata, mica c’ho tempo da perdere, io. Qualcosa da bere e da mangiare. Una panchina, adesso che non c’è più freddo basta una panchina. Altrimenti è dura,  ci vuole l’angolo giusto, e qui in città sono tutti occupati, gli angoli giusti, quelli riparati dal vento. Che cosa credete, che è facile? No, non è facile per un cazzo. Prova tu a vivere per un giorno da barbone, poi mi dici».

Non è facile per un cazzo, fare il barbone.
Ma non fateci arrabbiare.
Siamo tanti.
Siamo sempre di più.
Siamo sporchi come la vostra coscienza.
La rivolta dei barboni? Sarebbe un sogno.
Ma ce l’hai una moneta?

lunedì 25 aprile 2011

La parte sbagliata

Inutile aggiungersi alle lenzuolate più o meno retoriche che sempre coprono il 25 aprile. Solo, in quest’epoca di reinterpretazioni pseudo-storiche che meschinamente  vengono utilizzate più che altro per strumentalizzare il presente, e di miserabili insofferenze bipartisan per qualunque ricorrenza che possa risultare condivisa o perlomeno condivisibile, ecco, c’è da ribadire una cosa. Ai tempi della liberazione – la liberazione dalla dittatura fascista e dall’invasore, quella lì – a quei tempi, e soprattutto subito dopo, non era poi così facile stabilire quale fosse la parte giusta. Di certo, però, si può dire qual era la parte sbagliata. Era quella che stava con i nazisti – i nazisti, presente? Baffetto e camere a gas e passi dell'oca e razze pure e SS e via agghiacciando.
Banale, ma è così. Ed è meglio ricordarselo.  
Tutto il resto sono pippe.

martedì 19 aprile 2011

Quando l'inferno è l'unico rifugio
La vita sull'orlo della guerra

[foto da iPhone, 14-17 aprile 2011]

Vuoi sapere che cos'è un campo profughi? Lo vuoi sapere? È un inferno, ecco che cos'è. Con il vento che solleva la sabbia e la sabbia che ti taglia la faccia e insomma, non è per dire ma qui fra un mese faranno 45 gradi. Eppure ci sono giorni in cui l'inferno è l'unico luogo che ti dà accoglienza, l'unico rifugio sicuro. Un inferno che ti salva, ecco che cos'è il campo profughi. Poi però bisogna uscirne. E uscire dall'inferno non è mai così facile.





















Ras Jedir è la frontiera che separa la Tunisia dalla Libia, la rivoluzione conclusa dalla rivolta in atto, la pace dalla guerra. Il ragazzo tunisino addetto a tenere il conto dei profughi in entrata, quelli che scappano dalle bombe, ci mostra l'elenco delle ultime ore. E dunque: 2.633 libici, 108 tunisini, 88 del Ciad, 40 somali, 26 marocchini, 10 del Bangladesh, 4 della Mauritania, 4 italiani, 3 tedeschi, 3 algerini, 2 della Ghana, 2 eritrei, 2 della Nuova Guinea, 1 greco, 1 inglese, 1 nigeriano. 



































E i due ragazzi ghanesi li incontriamo subito dopo il confine, seduti sui gradini del bar, giubbotti e cappelli di lana calati sugli occhi nonostante il gran sole – e però il vento del deserto è forte, oggi. E si portano dietro tutto quel che sono riusciti a raccattare, due sacchi pieni di roba e soprattutto un grosso e vecchio televisore, di quelli che noi definiremmo anni Settanta. Hanno l'aria esausta. «Libia, Tunisia, poi Ghana» così ci riassumono i loro programmi, facendo il segno dell'aereo con la mano. E poi? Allargano le braccia, «poi non si sa».  


















Il campo più grande si chiama Sciuscià, perlomeno così si pronuncia, in arabo vorrà pur dire qualcosa ma certo per l'italiano assume un significato evocativo. Si distende proprio di fianco alla strada che esce alla frontiera, tende a perdita d’occhio, ora saranno 5-6mila persone ma solo una settimana fa erano molte di più. Ed è tutto un brulicare di gente che cammina e che parla e dorme sul ciglio in attesa d'entrare e s'accalca davanti all'autobus in partenza per chissà dove oppure si mette in fila per chissà che cosa.  E poi i bambini, loro giocano.  




















E davanti al campo è nato un  mercato, un  mercato vero, decine di furgoncini più o meno scassati che vendono di tutto, roba da mangiare e vestiti e deodoranti e borse e scarpe. C'è un ragazzo che ne sta guardando un paio, le osserva  e le controlla e poi ne chiede il prezzo, gli viene risposto «19 dinari». Mouldi mi fa cenno, s'allontana un paio di passi e commenta, «quelle, in paese, al massimo 5 o 6 dinari».




















D'improvviso s'alzano grida ritmiche e battiti di mani. È un gruppone di rifugiati, qualche centinaio, marciano sulla strada che sembra un corteo di protesta, e in effetti è proprio così, stanno protestando. Sono i profughi originari del Bangladesh, in Libia erano migliaia, più che altro operai e manovali non qualificati. È venuto qui pure un rappresentante del loro governo, governo che però è povero quanto loro. E insomma, sono riusciti a rimpatriarne molti, ma adesso i soldi sono finiti e per questi non c'è modo di provvedere. Il gruppo avanza sventolando le bandiere del Paese, scandisce «Ban-gla-desh! Ban-gla-desh!», con gli altri ai lati della strada che li guardano, per la verità inespressivi. Percorrono in questo modo cinquecento metri, poi si fermano e smettono di gridare e rientrano nell'accampamento. 


















Vediamo una donna, se ne resta in disparte, ferma immobile con le braccia incrociate e lo sguardo lontano, e intorno i suoi bambini giocano e ridono. E lei niente, nemmeno un movimento, un’espressione, pare un albero. Ci avviciniamo e cerchiamo di parlarle, lei non reagisce. Chiediamo se possiamo farle una foto, i bambini ripetono quasi festosi «foto! foto!» e la indicano e le girano intorno. Lei continua a guardare lontano e non dice niente, solo incrocia le braccia. Mouldi mi prende per un braccio, «andiamo, lasciamola in pace, c'è solo una cosa che lei vuole davvero».




















Lei vuole tornare a casa.

lunedì 11 aprile 2011

Contrappasso padano

Adesso Maroni e gli altri verdastri padani han pure la faccia di dire che «vedremo se abbiamo di fronte un’Europa unita e solidale oppure no», e il ministro lo dichiara perché Francia e Germania -  e questo è un fatto innegabile – oppongono un atteggiamento indifendibile di fronte alla marea di migranti disperati che quotidianamente fugge dal nord Africa per dirigersi nel cuore d’Europa, Francia e Germania comprese.

Tornando ai leghisti, questi - spalleggiati dall'amico Silvio - in sostanza concludono che allora no, forse non ha senso restare nell'Unione Europea, tanto varrebbe uscirne - posizione invero mica tanto nuova, dalle parti di Pontida. E però ci sarebbe anche da dire che proprio Francia e Germania stanno opponendo all’Italia l’atteggiamento che la stessa Lega ha sempre tenuto nei confronti dell’immigrazione, e che tutt’oggi terrebbe se fosse l'Italia - anzi, la Padania - al loro posto, vale a dire «i negri straccioni non li vogliamo, teneteveli e fatti vostri».

Ce ne sarebbe da rifletterci su, se i leghisti fossero persone serie.
Non lo faranno.

sabato 9 aprile 2011

Vuoi mettere gli embrioni con i somali?

Sì, duecento e passa migranti sono affogati nel Canale di Sicilia, e questo muove a compassione, ma “soffrire con gli altri e per gli altri è molto complicato – avverte Giuliano Ferrara – se non si voglia essere facilisti e ipocriti”.
Erano eritrei e somali, mica embrioni.

[dal grande Malvino]

giovedì 7 aprile 2011

Ma la guerra?

Scusate, ché forse mi son perso qualcosa: ma la guerra in Libia c'è ancora?
Perché qui non ne parla più nessuno.

martedì 5 aprile 2011

Mogli di plastica e Paesi reali

C’è questo reality americano, si chiama Spose di plastica. E niente, una dozzina di future mogli gareggiano per aggiudicarsi una cerimonia faraonica e un restyling facciale di chirurgia estetica, col marito che rivedrà la consorte solo a cose fatte. E ci pensi un attimo e concludi che dài, è agghiacciante, ma com’è possibile che si sia arrivati a questo punto?

E però, allora. Allora non è solo l’Italia del berlusconismo. Non è solo il Cavaliere  che ha corrotto le anime, narcotizzando e rimbambendo un intero Paese tra telepromozioni e grandifratelli. Cioè, negli Stati Uniti adesso c’è Sant’Obama, speranza sia pur in parte delusa dell’agognato rinascimento mondiale. E prima di Bush c’era Clinton, un altro che Veltroni e compagnia ci han fatto una capa tanta.

E dunque è proprio vero, al netto delle analisi di Repubblica e affini e del «gli italiani ormai si sono rincoglioniti» - ritornello, questo, che però suona tanto come una scusa per nascondere l’incapacità del nostrano schieramento progressista di opporsi al populismo insopportabile elaborando una proposta credibile. E’ vero invece che Berlusconi non è tanto la causa, ma il prodotto di ciò che siamo diventati – plurale generico, di fronte al quale tutti in coro subito ripetono che «io no, io sono diverso». E comunque non è che sia una scoperta, ma nemmeno un discorso così inutile. Nel senso che è meglio ricordarsela, questa cosa, giusto per aver presente qual è la realtà – il Paese reale, no? – e come eventualmente agire, possibilmente senza spocchia, per cambiare le cose. Discutere. Convincere. Fare politica, insomma.

Perché negarlo è come fermare il vento con le mani. E in questo senso è certo paragone azzardato, ma ricorda l’atteggiamento della Lega di fronte al fenomeno dell’immigrazione, che si guarda i piedi per evitare di prendere atto di una realtà più generale. Cioè, son millenni che le popolazioni si spostano nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita – in seguito a carestie o guerre o quant’altro – e questi vogliono fermare i flussi con le espulsioni e gli accordi e i reati di immigrazione clandestina e le magliette di Calderoli
Ma vaccaghér.

Le fasi della vita

Le fasi nella vita sono, in ordine cronologico: che bel bambino – che bel ragazzo – che bell’uomo – che distinto signore – ancora in gamba – che simpatico nonnetto – sembra che dorma.
                                                                                                                      [SuzukiMaruti via EmmeBi]

sabato 2 aprile 2011

Spacciatori di cazzate / 3
Sul delitto dell'Olgiata

Sulla questione dei complottisti in servizio permanente effettivo e spacciatori di cazzate ho già scritto qui e qui. Adesso c’è questa storia del delitto dell’Olgiata. E insomma, ai tempi e poi negli anni si è parlato di servizi segreti e logge massoniche e fondi neri e traffici internazionali e depistaggi e quant’altro.

Poi alla fine vien fuori che il colpevole è nientemeno che il maggiordomo filippino, e ha ammazzato la contessa con uno zoccolo perché aveva perso il lavoro.

P.S. – Da segnalare l’imperdibile Jena su La Stampa:

Gli immigrati vanno rimpatriati
altrimenti ci uccidono le contesse.