martedì 19 aprile 2011

Quando l'inferno è l'unico rifugio
La vita sull'orlo della guerra

[foto da iPhone, 14-17 aprile 2011]

Vuoi sapere che cos'è un campo profughi? Lo vuoi sapere? È un inferno, ecco che cos'è. Con il vento che solleva la sabbia e la sabbia che ti taglia la faccia e insomma, non è per dire ma qui fra un mese faranno 45 gradi. Eppure ci sono giorni in cui l'inferno è l'unico luogo che ti dà accoglienza, l'unico rifugio sicuro. Un inferno che ti salva, ecco che cos'è il campo profughi. Poi però bisogna uscirne. E uscire dall'inferno non è mai così facile.





















Ras Jedir è la frontiera che separa la Tunisia dalla Libia, la rivoluzione conclusa dalla rivolta in atto, la pace dalla guerra. Il ragazzo tunisino addetto a tenere il conto dei profughi in entrata, quelli che scappano dalle bombe, ci mostra l'elenco delle ultime ore. E dunque: 2.633 libici, 108 tunisini, 88 del Ciad, 40 somali, 26 marocchini, 10 del Bangladesh, 4 della Mauritania, 4 italiani, 3 tedeschi, 3 algerini, 2 della Ghana, 2 eritrei, 2 della Nuova Guinea, 1 greco, 1 inglese, 1 nigeriano. 



































E i due ragazzi ghanesi li incontriamo subito dopo il confine, seduti sui gradini del bar, giubbotti e cappelli di lana calati sugli occhi nonostante il gran sole – e però il vento del deserto è forte, oggi. E si portano dietro tutto quel che sono riusciti a raccattare, due sacchi pieni di roba e soprattutto un grosso e vecchio televisore, di quelli che noi definiremmo anni Settanta. Hanno l'aria esausta. «Libia, Tunisia, poi Ghana» così ci riassumono i loro programmi, facendo il segno dell'aereo con la mano. E poi? Allargano le braccia, «poi non si sa».  


















Il campo più grande si chiama Sciuscià, perlomeno così si pronuncia, in arabo vorrà pur dire qualcosa ma certo per l'italiano assume un significato evocativo. Si distende proprio di fianco alla strada che esce alla frontiera, tende a perdita d’occhio, ora saranno 5-6mila persone ma solo una settimana fa erano molte di più. Ed è tutto un brulicare di gente che cammina e che parla e dorme sul ciglio in attesa d'entrare e s'accalca davanti all'autobus in partenza per chissà dove oppure si mette in fila per chissà che cosa.  E poi i bambini, loro giocano.  




















E davanti al campo è nato un  mercato, un  mercato vero, decine di furgoncini più o meno scassati che vendono di tutto, roba da mangiare e vestiti e deodoranti e borse e scarpe. C'è un ragazzo che ne sta guardando un paio, le osserva  e le controlla e poi ne chiede il prezzo, gli viene risposto «19 dinari». Mouldi mi fa cenno, s'allontana un paio di passi e commenta, «quelle, in paese, al massimo 5 o 6 dinari».




















D'improvviso s'alzano grida ritmiche e battiti di mani. È un gruppone di rifugiati, qualche centinaio, marciano sulla strada che sembra un corteo di protesta, e in effetti è proprio così, stanno protestando. Sono i profughi originari del Bangladesh, in Libia erano migliaia, più che altro operai e manovali non qualificati. È venuto qui pure un rappresentante del loro governo, governo che però è povero quanto loro. E insomma, sono riusciti a rimpatriarne molti, ma adesso i soldi sono finiti e per questi non c'è modo di provvedere. Il gruppo avanza sventolando le bandiere del Paese, scandisce «Ban-gla-desh! Ban-gla-desh!», con gli altri ai lati della strada che li guardano, per la verità inespressivi. Percorrono in questo modo cinquecento metri, poi si fermano e smettono di gridare e rientrano nell'accampamento. 


















Vediamo una donna, se ne resta in disparte, ferma immobile con le braccia incrociate e lo sguardo lontano, e intorno i suoi bambini giocano e ridono. E lei niente, nemmeno un movimento, un’espressione, pare un albero. Ci avviciniamo e cerchiamo di parlarle, lei non reagisce. Chiediamo se possiamo farle una foto, i bambini ripetono quasi festosi «foto! foto!» e la indicano e le girano intorno. Lei continua a guardare lontano e non dice niente, solo incrocia le braccia. Mouldi mi prende per un braccio, «andiamo, lasciamola in pace, c'è solo una cosa che lei vuole davvero».




















Lei vuole tornare a casa.

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