sabato 21 maggio 2011

Da papà a papà

E alla fine resta solo quella frase sentita migliaia e milioni di volte, la frase con cui iniziano gli articoli del giorno dopo, «non ce l’ha fatta». Uno schifo di frase maledetta. «Non ce l’ha fatta». Ci son volute ore per prendere la decisione, il sangue che non affluisce più al cervello, le pratiche per l’accertamento di morte. Non aveva neanche due anni, la piccina.  E nessuno può capire, nessuno può immaginare. «Ma com’è stato possibile? Ma come ho fatto?». Ed è e sarà la domanda della vita, hai passato gli ultimi giorni e le ultime notti cercando di capire il quando e il come e il perché, ripercorrendo i minuti e i secondi - la memoria che s’inceppa, prigioniera di gesti quotidiani che da chissà quanto tempo si ripetono meccanicamente, e però quella mattina prima di andare a far lezione c’era da accompagnare la piccola Elena al nido, e invece l’hai lasciata lì dietro, sul sedile posteriore, legata al seggiolino - «dormiva? sì che dormiva...» -, e immerso nei pensieri sei sceso dalla macchina e hai chiuso la portiera dietro di te e la tua bimba è rimasta cinque ore nel parcheggio sotto il sole. «Dimenticata. Me la sono dimenticata». E poi lo sguardo di tua moglie, lo sguardo che ti si rivolgeva quasi implorante, «com’è stato possibile?». Ma ecco qualche speranza, i medici, «non è in pericolo di vita», il respiro che resiste, l’incapacità di credere che possa davvero accadere - e ti torna in mente quando correvi verso l’ospedale con tuo padre lì davanti in ambulanza che s’era sentito male improvvisamente, e l’eventualità che potesse morire era come non fosse contemplata. E invece niente, gli esami rivelano un’edema cerebrale, le complicazioni renali, «l’elettroencefalogramma non è piatto ma non è normale». Fino al «non ce l’ha fatta». Abbassi la testa, e chiudi gli occhi senza più lacrime. Vuoti, come vuoto è il cuore.

E davvero non si può capire, davvero non si può immaginare. Per dire, chiunque abbia la fortuna di guardare il proprio figlio che dorme, rendendosi conto di come sia vita per la quale sacrificare la propria, e quasi spaventandosi per l’amore che ti ci lega: e il timore che gli possa accadere qualcosa di male per poco non ti provoca dolore fisico. «Dimenticata. Me la sono dimenticata». Che ti si ghiaccia l’anima soltanto a pensarci. Ne parlano come di un papà eccezionale, il veterinario-chirurgo di Teramo, e di certo lo è. Chi l’ha potuta osservare, in questi giorni, descrive una coppia ancora unita, sia pur comprensibilmente molto provata. La signora, anch’essa medico, è incinta di otto mesi: una nascita che potrebbe significare salvezza. E lei stessa dichiara che «quel che è successo a Lucio può capitare a ognuno di noi, perché non ci si ferma mai e lui non si fermava perché doveva preoccuparsi di me, della mia gravidanza, della piccola Elena, della casa appena costruita...». E ancora: «Voglio dare al mondo intero l'amore del mio compagno verso la figlia, padre esemplare! Non è colpevole di niente! Elena adorava il suo papà e la prima parola di Elena è stata bà bà...». Parole d’amore che commuovono, parole cui aggrapparsi per non affogare. Ma che mai riusciranno a cancellare il dolore. Adesso ci sarà l’inchiesta, forse si passerà da abbandono di minore a omicidio colposo. Ma il linguaggio giuridico è a volte così lontano dalla vita, e dopo i primi accertamenti - fugaci poiché senza necessità di particolari approfondimenti, tant’è lampante la dinamica - è venuta fuori una parola che, per un genitore, è la condanna peggiore: «Distrazione. Di quelle gravi, ma è stata una distrazione». Terribilmente banale, ma è così.

E certo è evento eccezionale, ma di episodi del genere se ne ricordano diversi. A memoria ce ne vengono in mente un paio, qui in Italia: a Catania, nel ’98, e nel Lecchese tre anni fa. E con modalità del tutto identiche - il figliolo in auto, la corsa verso il lavoro scordandosi di passare per l’asilo, la scoperta e il tardivo intervento medico. E sempre famiglie solide, sane, nient’affatto assimilabili al cliché dei genitori snaturati. E magari oggi gli si chiede di raccontarne, giusto per capire come si possa riuscire  a sopravvivere a un dolore del genere. E però loro no, non ne parlano. Perché ci sono cose che vanno lasciate lì, da parte, senza sperare di dimenticarle, forse nemmeno volendolo, ma lasciando che la polvere del tempo perlomeno ne copra la vista alla memoria. Almeno a quella quotidiana.

E poi subito ci sarà chi provvederà ad aprire il librone mentale dei luoghi comuni. Ed ecco la  troppa importanza che troppe volte diamo a troppe cose in realtà risibili. E i ritmi insostenibili di una società che tritura esistenze come fossero carburante. E il «bisogna tornare ai valori veri». E saranno anche considerazioni condivisibili, ma tutto quello che avremmo voglia di fare in questo momento è - da padre a padre - abbracciare quell’uomo. Quel papà.

Per quel che può servire.

Cioè niente.

2 commenti:

  1. Non so... ma ho subito visualizzato nella testa il film di Mick Leigh… "Another Year"… ricorderai di certo la coppia al centro della storia, quella attorno alla quale ruota tutto l’universo del film e che ne costituisce la vera materia umana: disperati, perdenti, confusi… gente che non trova... che cosa? ...tanto non sa neppure dove cercare.
    Ecco, quella coppia ed è affiatata, calma, tranquilla. I due si amano. Niente li turba. La loro è una vita... perfetta.
    Perfetta sì, ma SCOLLATA dal resto del mondo, quello autentico, rattoppato a casaccio…
    I personaggi/persone che girano loro attorno anelano in qualche modo a essere UGUALI a loro.

    UGUALI.

    PERFETTI.

    Io quella coppia l’ho detestata fin dal primo istante, fin dalla prima inquadratura… da quando lei (psicanalista) parla con la sua paziente domandandole l’ultima volta in cui è stata felice… la paziente continua a chiederle farmaci e LEI le risponde con domande indagatorie. “Cerco solo di aiutarla” dice.
    Ma nessuno gliel’ha chiesto.

    Ma lei no... lei è perfetta a tutti i costi. Anche quando, appunto, nessuno gliel'ha chiesto.
    Proprio nessuno.

    ale

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  2. Adesso che pure io sono padre conosco una sensazione unica: quella di sapere che l'essere che hai di fronte dipende da te. Completamente. Sgomenta, punto e basta. Perché siamo abituati a scivolare e chiedere scusa, a sbagliare senza per forza pagare per sempre...
    Quel padre, solo 24 ore prima, leggendo di un episodio simile, avrebbe detto "cristo, ma come si fa...". E invece si fa, e questo è terribile davvero.
    A noi capita di andare insieme. E non c'è bisogno di essere alterati. Basta essere presi, alle volte, a cercare di fare tutto quello che ti pare giusto fare.
    A lui è successo così. Fa venire la pelle d'oca il commento della moglie per quanto è splendido e pieno d'amore (e da oggi in avanti saranno tutti cazzi loro). Sai a quello che gliene frega dell'imputazione possibile quanto dovrà fronteggiare un'amputazione così enorme di fronte a sé stesso e - peggio - al mondo intero...
    Dove non c'è volontà, non ci può essere condanna.
    Mi unisco al tuo abbraccio
    f

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